La storia dell’Ospedale di Sant’Antonio di Cagliari, attestato nelle fonti documentarie dal XIV secolo, è passata attraverso varie forme di amministrazione: dapprima religiosa, gestita dall’Ordine dei Canonici di Sant’Antonio di Vienne, quindi laica, sotto l’autorità municipale che già dal 1422 devolveva in suo favore un terzo delle multe inflitte ai contravventori delle norme cittadine, e ancora una volta religiosa. Nel 1635, infatti, pur riservandosi la proprietà dello stabile, la città ne affidò l’amministrazione all’Ordine dei Fatebenefratelli di S. Giovanni di Dio che si impegnarono ad offrire l’assistenza medica gratuita ai poveri, agli esposti, ai militari e ai marinai. Punto di riferimento sanitario per tutta l’area cagliaritana, la struttura disponeva inizialmente di 36 letti, 28 per gli uomini e 8 per le donne ma, grazie all’impegno dei Fatebenefratelli, nel 1685 aumentarono a 100 consentendo circa 1.800 ricoveri all’anno. Nel 1768, in seguito all’istituzione delle Congregazioni sugli Ospedali in tutto il regno di Sardegna da parte del governo sabaudo, il Sant’Antonio ebbe una nuova organizzazione successivamente fissata nel Regolamento del 1776, oggi conservato nell’Archivio di Stato di Cagliari. Da questo momento fu decretato che tutti i poveri potevano essere ricoverati nella struttura ad eccezione «dei portatori di malattie contagiose e gli incurabili», ovvero gli scorbutici, i tisici, gli scrofolosi, i rachitici, gli epilettici, gli scabbiosi, «gli ostrutti senza febbre», i podagrosi e «i posseduti da stillicidio inveterato o d’altri mali abituali». I pazzi incurabili o curabili, invece, dovevano essere tutti soccorsi: «i primi per toglierli dall’occasione di nuocere ad altri o a se stessi; li secondi per lo stesso motivo per guarirgli ancora». La sensibilità sociale vedeva infatti la malattia mentale come un problema di ordine pubblico: l’internamento era, nell’Europa del XVII-XVIII secolo, sostenuto da esigenze di sicurezza. Ma, come spiegava Foucault, l’Ancien Régime era animato dal sentimento morale che tentava di correggere e reprimere, e per il quale si mettevano a disposizione «prigioni e segrete». Nel suo piccolo, la Cagliari della Restaurazione post angioiana -coinvolta nella vita della corte sabauda rifugiatasi in Sardegna per sfuggire all’invasione di Napoleone Bonaparte e ancora lontana dai Lumi che ormai brillavano nel vecchio continente- dedicava ai pazzi un apposito ambiente detto Stufa. Filippo Maria Tomasi, sacerdote e segretario dell’Ospedale di Sant’Antonio Abate, iniziava nel 1799 il Libro dove si notano le donne che vengono con pazzia…

Libro dove si notano le donne che vengono con pazzia. Anno 1799... in questo nostro convento e ospedale di Sant’Antonio Abate di Cagliari

TASCA, CECILIA
Primo
;
RAPETTI, MARIANGELA
Secondo
2014-01-01

Abstract

La storia dell’Ospedale di Sant’Antonio di Cagliari, attestato nelle fonti documentarie dal XIV secolo, è passata attraverso varie forme di amministrazione: dapprima religiosa, gestita dall’Ordine dei Canonici di Sant’Antonio di Vienne, quindi laica, sotto l’autorità municipale che già dal 1422 devolveva in suo favore un terzo delle multe inflitte ai contravventori delle norme cittadine, e ancora una volta religiosa. Nel 1635, infatti, pur riservandosi la proprietà dello stabile, la città ne affidò l’amministrazione all’Ordine dei Fatebenefratelli di S. Giovanni di Dio che si impegnarono ad offrire l’assistenza medica gratuita ai poveri, agli esposti, ai militari e ai marinai. Punto di riferimento sanitario per tutta l’area cagliaritana, la struttura disponeva inizialmente di 36 letti, 28 per gli uomini e 8 per le donne ma, grazie all’impegno dei Fatebenefratelli, nel 1685 aumentarono a 100 consentendo circa 1.800 ricoveri all’anno. Nel 1768, in seguito all’istituzione delle Congregazioni sugli Ospedali in tutto il regno di Sardegna da parte del governo sabaudo, il Sant’Antonio ebbe una nuova organizzazione successivamente fissata nel Regolamento del 1776, oggi conservato nell’Archivio di Stato di Cagliari. Da questo momento fu decretato che tutti i poveri potevano essere ricoverati nella struttura ad eccezione «dei portatori di malattie contagiose e gli incurabili», ovvero gli scorbutici, i tisici, gli scrofolosi, i rachitici, gli epilettici, gli scabbiosi, «gli ostrutti senza febbre», i podagrosi e «i posseduti da stillicidio inveterato o d’altri mali abituali». I pazzi incurabili o curabili, invece, dovevano essere tutti soccorsi: «i primi per toglierli dall’occasione di nuocere ad altri o a se stessi; li secondi per lo stesso motivo per guarirgli ancora». La sensibilità sociale vedeva infatti la malattia mentale come un problema di ordine pubblico: l’internamento era, nell’Europa del XVII-XVIII secolo, sostenuto da esigenze di sicurezza. Ma, come spiegava Foucault, l’Ancien Régime era animato dal sentimento morale che tentava di correggere e reprimere, e per il quale si mettevano a disposizione «prigioni e segrete». Nel suo piccolo, la Cagliari della Restaurazione post angioiana -coinvolta nella vita della corte sabauda rifugiatasi in Sardegna per sfuggire all’invasione di Napoleone Bonaparte e ancora lontana dai Lumi che ormai brillavano nel vecchio continente- dedicava ai pazzi un apposito ambiente detto Stufa. Filippo Maria Tomasi, sacerdote e segretario dell’Ospedale di Sant’Antonio Abate, iniziava nel 1799 il Libro dove si notano le donne che vengono con pazzia…
2014
9788884678683
Sardegna; Medicina; Pazzia; Donne
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