Nel regno di Sardegna acquisito nel 1720, la dinastia sabauda trovò smisurate terre che, infeudate con amplissima giurisdizione, non sembravano riconoscere 'superiorità' alcuna fuori di quella del loro signore. Baroni spagnoli, potenti e lontani, e con loro numerosi signori sardi potevano essere scanadlosamente "equiparati al re medesimo" nei loro possedimenti, mentre la "suprema podestà" del sovrano vi veniva ignorata del tutto. Azzardati progetti di acquisto degli sconfinati feudi iberici e di ridistribuzione parcellizzata furono elaborati dai viceré a Cagòliari, ma restarono sulla carta. Soltanto negli anni cinquanta, una pratica discorsiva del governo volta contro l'intollerabile 'dispotismo' feudale nelle campagne fece intravvedere nuove soluzioni e inaspettate alleanze. Nelle vessazioni signorili fu individuata la fonte del degrado che affliggeva le comunità dei vassalli, gli interessi collettivi e l'amministrazione dela giustizia. Dei 'consigli comunitativi', messi sotto la protezione regia ed emancipati dalla soffocante tutela feudale, vi avrebbero posto riparo e permesso alle autorità governative di incunerasi anche nelle intoccabili terre signorili. Istituiti nel 1771, i consigli aprirono una contestazione degli arbitri baronali che dilagò nei più sperduti villaggi. L'aristocrazia feudale reagì con veemenza. Dal corpo più autorevole del regno giunse la prima, radicale critica dell'assolutismo regio mai registrata in cinquant'anni di dominio sabaudo. Soprattutto ai viceré in Sardegna, impegnati in prima fila nella difesa delle prerogative sovrane, spettò il compito di far fronte alla reazione dei baroni

I vicerè tra riformismo e reazione aristocratica

LEPORI, MARIA
2005-01-01

Abstract

Nel regno di Sardegna acquisito nel 1720, la dinastia sabauda trovò smisurate terre che, infeudate con amplissima giurisdizione, non sembravano riconoscere 'superiorità' alcuna fuori di quella del loro signore. Baroni spagnoli, potenti e lontani, e con loro numerosi signori sardi potevano essere scanadlosamente "equiparati al re medesimo" nei loro possedimenti, mentre la "suprema podestà" del sovrano vi veniva ignorata del tutto. Azzardati progetti di acquisto degli sconfinati feudi iberici e di ridistribuzione parcellizzata furono elaborati dai viceré a Cagòliari, ma restarono sulla carta. Soltanto negli anni cinquanta, una pratica discorsiva del governo volta contro l'intollerabile 'dispotismo' feudale nelle campagne fece intravvedere nuove soluzioni e inaspettate alleanze. Nelle vessazioni signorili fu individuata la fonte del degrado che affliggeva le comunità dei vassalli, gli interessi collettivi e l'amministrazione dela giustizia. Dei 'consigli comunitativi', messi sotto la protezione regia ed emancipati dalla soffocante tutela feudale, vi avrebbero posto riparo e permesso alle autorità governative di incunerasi anche nelle intoccabili terre signorili. Istituiti nel 1771, i consigli aprirono una contestazione degli arbitri baronali che dilagò nei più sperduti villaggi. L'aristocrazia feudale reagì con veemenza. Dal corpo più autorevole del regno giunse la prima, radicale critica dell'assolutismo regio mai registrata in cinquant'anni di dominio sabaudo. Soprattutto ai viceré in Sardegna, impegnati in prima fila nella difesa delle prerogative sovrane, spettò il compito di far fronte alla reazione dei baroni
2005
88-430-3448-0
Settecento; Riforme; aristocrazia
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