Per tutta l’età classica l’aborto è preso in considerazione dal diritto solo quando è lesione dell’aspettativa di un uomo di avere una propria legittima progenie. Ne è autrice dunque la sola donna sposata che abbia interrotto volontariamente la propria gravidanza senza il consenso del coniuge. Questi può perciò ripudiarla e trattenere per sé parte della dote esercitando la retentio propter liberos. Per la medesima ratio, con una costituzione di Settimio Severo e Caracalla si inizia a perseguire la condotta abortiva anche come crimen, imputandolo alle donne già divorziate oltre che alle coniugate. Forse già con Giustiniano si giunge a configurare l’interruzione volontaria di gravidanza (anche) come omicidio del feto. I Compilatori infatti sembrano recepire il contenuto dei canoni 2 e 8 di Basilio di Cesarea attraverso un uso ‘interpolatorio’ di Ulp. (33 ad ed.) D. 48,8,8, con il quale si amplia a tutte le donne, senza differenze di status, l’area dei soggetti punibili. Il regime così disegnato sembra perpetuarsi nell’ordinamento canonico e in quello imperiale fino all’età dei Macedoni. A questa tendenza fa eccezione la normativa isaurica che, per mezzo di Ecl. 17,36, inserisce l’illecito nell’ambito dei reati contro la pudicizia punendo esclusivamente le donne non sposate e deferendo implicitamente pertanto la punizione di tutte le altre al solo ordinamento ecclesiastico. Siffatto assetto sanzionatorio può dunque essere assunto come ulteriore esempio, nel diritto mediobizantino, della reciproca integrazione dei sistemi repressivi di Chiesa e Impero, particolarmente evidente nella persecuzione di fatti illeciti consistenti in condotte ‘eticamente rilevanti’.

Abortire a Bisanzio. Iura, leges, νόμοι e κάνονες dal diritto della Compilazione ai Basilici

Botta, Fabio
2021-01-01

Abstract

Per tutta l’età classica l’aborto è preso in considerazione dal diritto solo quando è lesione dell’aspettativa di un uomo di avere una propria legittima progenie. Ne è autrice dunque la sola donna sposata che abbia interrotto volontariamente la propria gravidanza senza il consenso del coniuge. Questi può perciò ripudiarla e trattenere per sé parte della dote esercitando la retentio propter liberos. Per la medesima ratio, con una costituzione di Settimio Severo e Caracalla si inizia a perseguire la condotta abortiva anche come crimen, imputandolo alle donne già divorziate oltre che alle coniugate. Forse già con Giustiniano si giunge a configurare l’interruzione volontaria di gravidanza (anche) come omicidio del feto. I Compilatori infatti sembrano recepire il contenuto dei canoni 2 e 8 di Basilio di Cesarea attraverso un uso ‘interpolatorio’ di Ulp. (33 ad ed.) D. 48,8,8, con il quale si amplia a tutte le donne, senza differenze di status, l’area dei soggetti punibili. Il regime così disegnato sembra perpetuarsi nell’ordinamento canonico e in quello imperiale fino all’età dei Macedoni. A questa tendenza fa eccezione la normativa isaurica che, per mezzo di Ecl. 17,36, inserisce l’illecito nell’ambito dei reati contro la pudicizia punendo esclusivamente le donne non sposate e deferendo implicitamente pertanto la punizione di tutte le altre al solo ordinamento ecclesiastico. Siffatto assetto sanzionatorio può dunque essere assunto come ulteriore esempio, nel diritto mediobizantino, della reciproca integrazione dei sistemi repressivi di Chiesa e Impero, particolarmente evidente nella persecuzione di fatti illeciti consistenti in condotte ‘eticamente rilevanti’.
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