Lo sfruttamento politico del patrimonio culturale – materiale o immateriale -, nel corso della storia, è più volte risultato un vantaggioso strumento di propaganda utile all’affermazione di ideologie politico-identitarie legate, nella coscienza comune, ai regimi totalitari. Ne sono esempio le demolizioni e le asportazioni di epoca fascista, funzionali alla costruzione della “Nuova Roma” – voluta da Mussolini - che doveva essere il risultato di una ‘riscoperta’ e riconnessione con l’antica città romana e che si espresse, in particolare, con numerosi interventi di distruzione nel Campo Marzio e con la costruzione della Via dell’Impero (oggi Via dei Fori Imperiali). Ne sono esempio, tra gli altri, pure i continui tentativi, da parte del regime nazista, di sovvertire la lettura storica del passato europeo e dei suoi monumenti con l’obiettivo di rappresentare la Germania come madre patria deputata “dalla storia” alla guida del continente. In alcuni casi, come per la Polonia, la strumentalizzazione del patrimonio culturale servì per rivendicare un’identità nazionale danneggiata dalle politiche repressive naziste che portò – nella prima metà del XIX secolo – ad un improvviso sviluppo dell’archeologia alto medievale con lo scopo dichiarato di rintracciare l’evidenza slava di una identità polacca ‘originale’, da contrapporre alla lettura nazista della dominazione secolare del territorio polacco da parte di gruppi etnici germanici. Il significato di patrimonio culturale - in ambito europeo - è mutato nel tempo ed oggi può generalmente essere considerato come una ‘preziosa eredità’ di cui ogni cittadino risulta essere, al tempo stesso, custode e fruitore. Secondo Tunbridge e Ashworth la definizione di ‘patrimonio culturale’, da parte delle società, viene dalla necessità di definire bisogni identitari legati ai momenti storici che questa vive: “L’interpretazione del passato nella storia, i manufatti e gli edifici sopravvissuti, le memorie individuali e collettive vengono tutti utilizzati per rispondere a bisogni attuali sia sociali-identitari che economici. Così il patrimonio culturale da una parte è il materiale indispensabile per costruire e definire l’identità sociale, etnica e territoriale degli individui dall’altra è una risorsa economica che può essere utilizzata all’interno degli schemi di produzione e commercializzazione delle industrie creative”. È certo che, nel corso degli ultimi decenni, l’idea di patrimonio culturale si sia modificata rendendo possibile la patrimonializzazione di nuove pratiche e luoghi, diventando sempre più ampia e facendo spazio, al suo interno, al cd. patrimonio intangibile e alla cura della memoria e dei saperi custoditi dalle comunità. Di pari passo, il connubio cultura-turismo ha acquisito una sempre maggiore importanza: la cultura offre un notevole impulso verso l’innovazione turistica e il turismo è in grado di offrire possibili canali di finanziamento, diffusione e – talvolta – di sensibilizzazione culturale. A partire da questi presupposti è parso opportuno, in questo contributo, provare ad analizzare in quale modo al giorno d’oggi la definizione del patrimonio culturale locale stia condizionando l’espressione di un territorio, come quello sardo, caratterizzato da un forte sentimento identitario individuabile in un rapporto causa/sintomo forse derivato da una sempre maggiore consapevolezza di subalternità rispetto alla ‘nazione Italia’, e come questo sia in grado di condizionare, in maniera diretta o indiretta, la sostenibilità economica e sociale e le scelte, anche istituzionali, nell’ambito della cura e della valorizzazione del paesaggio culturale isolano. Non di rado, in effetti, è possibile riscontrare un proliferare di tesi “fantarcheologiche”, cavalcate in ambito editoriale e/o divulgativo, e supportate da un importante ‘flusso digitale’ manifesto, in particolare, nel mondo dei social media, atte a dimostrare la supremazia, in particolare dei popoli sardo-nuragici, nel mondo antico. Tali teorie, nella gran parte dei casi prive di alcuna base scientifica e metodologica di ricerca, si contrapporrebbero alle indagini della cosiddetta “archeologia tradizionale”, rea di aver sottratto e nascosto un passato mitico, ultimo baluardo di una sardità poi depredata da un susseguirsi di dominatori, nel corso dei secoli. A ciò è possibile associare una continua veicolazione di messaggi controversi, nell’ambito del marketing turistico-pubblicitario e nella recente proliferazione di feste e sagre ‘paesane’, che presentano al fruitore, interno ed esterno, un’isola stereotipata e arcaica, senza un contesto e fuori dal tempo, esempio di semplicità, tradizione e identità. In questo quadro i piccoli abitati e i centri storici diventano “oasi” dove riscoprire le radici e la memoria, dove i cibi sono genuini e i mestieri e i rituali sono quelli del passato, dove la natura è incontaminata e le persone vivono felici. L’impatto di queste scelte non è trascurabile: spesso si è assistito alla concessione di contributi pubblici per conferenze, convegni, pubblicazioni e mostre riguardanti teorie di “archeologia alternativa” che hanno facilitato la diffusione di un’idea confusa di “identità” e “sardità” favorendo la propagazione di teorie complottistiche che hanno condizionato le scelte politiche, anche in ambito autonomistico e indipendentista, e talvolta indirizzato verso un marketing turistico banalizzato da cliché e luoghi comuni. Parallelamente, lo sviluppo di un turismo interno “di massa”, indirizzato verso le suddette sagre, pur garantendo una momentanea possibilità di guadagno per gli abitanti dei centri coinvolti, sembrerebbe aver fornito un utile espediente atto a mimetizzare i più concreti problemi che affliggono queste comunità: lo spopolamento, la disoccupazione, la crisi della sanità e la mancanza di infrastrutture adeguate ai bisogni della contemporaneità. Obiettivo di questo contributo è quello di comprendere in quale modo la definizione di patrimonio culturale in Sardegna stia influenzando le scelte, anche istituzionali, relative alla cura e gestione dello stesso, impattando direttamente sui temi della sostenibilità sociale ed economica, e di concepire in quale modo una nuova lettura del paesaggio culturale sardo possa renderlo un bene collettivo e sociale da cui trarre beneficio per la costruzione di un’idea moderna di cittadinanza e uno strumento utile di emancipazione individuale e collettiva. Questo in una regione in cui, nella premessa dell’agenda ‘Sardegna 2030 – La strategia della Regione Sardegna per lo sviluppo sostenibile’, pubblicata nel 2021, si definisce l’obiettivo dell’individuazione puntuale delle “più importanti direttrici di crescita economica e sociale […], con l’obiettivo di rendere la nostra terra un luogo prospero per i suoi abitanti e accogliente per i suoi visitatori” con una chiosa di paragrafo che offre ulteriori spunti di analisi sulla stereotipizzazione degli isolani: “I Sardi hanno sempre dimostrato di saper affrontare a testa alta e senza paura i periodi duri e difficili”.
I differenti valori del ‘patrimonio culturale’ sardo. Definizioni, significato e impatto sociale ed economico
Francesco MameliPrimo
2024-01-01
Abstract
Lo sfruttamento politico del patrimonio culturale – materiale o immateriale -, nel corso della storia, è più volte risultato un vantaggioso strumento di propaganda utile all’affermazione di ideologie politico-identitarie legate, nella coscienza comune, ai regimi totalitari. Ne sono esempio le demolizioni e le asportazioni di epoca fascista, funzionali alla costruzione della “Nuova Roma” – voluta da Mussolini - che doveva essere il risultato di una ‘riscoperta’ e riconnessione con l’antica città romana e che si espresse, in particolare, con numerosi interventi di distruzione nel Campo Marzio e con la costruzione della Via dell’Impero (oggi Via dei Fori Imperiali). Ne sono esempio, tra gli altri, pure i continui tentativi, da parte del regime nazista, di sovvertire la lettura storica del passato europeo e dei suoi monumenti con l’obiettivo di rappresentare la Germania come madre patria deputata “dalla storia” alla guida del continente. In alcuni casi, come per la Polonia, la strumentalizzazione del patrimonio culturale servì per rivendicare un’identità nazionale danneggiata dalle politiche repressive naziste che portò – nella prima metà del XIX secolo – ad un improvviso sviluppo dell’archeologia alto medievale con lo scopo dichiarato di rintracciare l’evidenza slava di una identità polacca ‘originale’, da contrapporre alla lettura nazista della dominazione secolare del territorio polacco da parte di gruppi etnici germanici. Il significato di patrimonio culturale - in ambito europeo - è mutato nel tempo ed oggi può generalmente essere considerato come una ‘preziosa eredità’ di cui ogni cittadino risulta essere, al tempo stesso, custode e fruitore. Secondo Tunbridge e Ashworth la definizione di ‘patrimonio culturale’, da parte delle società, viene dalla necessità di definire bisogni identitari legati ai momenti storici che questa vive: “L’interpretazione del passato nella storia, i manufatti e gli edifici sopravvissuti, le memorie individuali e collettive vengono tutti utilizzati per rispondere a bisogni attuali sia sociali-identitari che economici. Così il patrimonio culturale da una parte è il materiale indispensabile per costruire e definire l’identità sociale, etnica e territoriale degli individui dall’altra è una risorsa economica che può essere utilizzata all’interno degli schemi di produzione e commercializzazione delle industrie creative”. È certo che, nel corso degli ultimi decenni, l’idea di patrimonio culturale si sia modificata rendendo possibile la patrimonializzazione di nuove pratiche e luoghi, diventando sempre più ampia e facendo spazio, al suo interno, al cd. patrimonio intangibile e alla cura della memoria e dei saperi custoditi dalle comunità. Di pari passo, il connubio cultura-turismo ha acquisito una sempre maggiore importanza: la cultura offre un notevole impulso verso l’innovazione turistica e il turismo è in grado di offrire possibili canali di finanziamento, diffusione e – talvolta – di sensibilizzazione culturale. A partire da questi presupposti è parso opportuno, in questo contributo, provare ad analizzare in quale modo al giorno d’oggi la definizione del patrimonio culturale locale stia condizionando l’espressione di un territorio, come quello sardo, caratterizzato da un forte sentimento identitario individuabile in un rapporto causa/sintomo forse derivato da una sempre maggiore consapevolezza di subalternità rispetto alla ‘nazione Italia’, e come questo sia in grado di condizionare, in maniera diretta o indiretta, la sostenibilità economica e sociale e le scelte, anche istituzionali, nell’ambito della cura e della valorizzazione del paesaggio culturale isolano. Non di rado, in effetti, è possibile riscontrare un proliferare di tesi “fantarcheologiche”, cavalcate in ambito editoriale e/o divulgativo, e supportate da un importante ‘flusso digitale’ manifesto, in particolare, nel mondo dei social media, atte a dimostrare la supremazia, in particolare dei popoli sardo-nuragici, nel mondo antico. Tali teorie, nella gran parte dei casi prive di alcuna base scientifica e metodologica di ricerca, si contrapporrebbero alle indagini della cosiddetta “archeologia tradizionale”, rea di aver sottratto e nascosto un passato mitico, ultimo baluardo di una sardità poi depredata da un susseguirsi di dominatori, nel corso dei secoli. A ciò è possibile associare una continua veicolazione di messaggi controversi, nell’ambito del marketing turistico-pubblicitario e nella recente proliferazione di feste e sagre ‘paesane’, che presentano al fruitore, interno ed esterno, un’isola stereotipata e arcaica, senza un contesto e fuori dal tempo, esempio di semplicità, tradizione e identità. In questo quadro i piccoli abitati e i centri storici diventano “oasi” dove riscoprire le radici e la memoria, dove i cibi sono genuini e i mestieri e i rituali sono quelli del passato, dove la natura è incontaminata e le persone vivono felici. L’impatto di queste scelte non è trascurabile: spesso si è assistito alla concessione di contributi pubblici per conferenze, convegni, pubblicazioni e mostre riguardanti teorie di “archeologia alternativa” che hanno facilitato la diffusione di un’idea confusa di “identità” e “sardità” favorendo la propagazione di teorie complottistiche che hanno condizionato le scelte politiche, anche in ambito autonomistico e indipendentista, e talvolta indirizzato verso un marketing turistico banalizzato da cliché e luoghi comuni. Parallelamente, lo sviluppo di un turismo interno “di massa”, indirizzato verso le suddette sagre, pur garantendo una momentanea possibilità di guadagno per gli abitanti dei centri coinvolti, sembrerebbe aver fornito un utile espediente atto a mimetizzare i più concreti problemi che affliggono queste comunità: lo spopolamento, la disoccupazione, la crisi della sanità e la mancanza di infrastrutture adeguate ai bisogni della contemporaneità. Obiettivo di questo contributo è quello di comprendere in quale modo la definizione di patrimonio culturale in Sardegna stia influenzando le scelte, anche istituzionali, relative alla cura e gestione dello stesso, impattando direttamente sui temi della sostenibilità sociale ed economica, e di concepire in quale modo una nuova lettura del paesaggio culturale sardo possa renderlo un bene collettivo e sociale da cui trarre beneficio per la costruzione di un’idea moderna di cittadinanza e uno strumento utile di emancipazione individuale e collettiva. Questo in una regione in cui, nella premessa dell’agenda ‘Sardegna 2030 – La strategia della Regione Sardegna per lo sviluppo sostenibile’, pubblicata nel 2021, si definisce l’obiettivo dell’individuazione puntuale delle “più importanti direttrici di crescita economica e sociale […], con l’obiettivo di rendere la nostra terra un luogo prospero per i suoi abitanti e accogliente per i suoi visitatori” con una chiosa di paragrafo che offre ulteriori spunti di analisi sulla stereotipizzazione degli isolani: “I Sardi hanno sempre dimostrato di saper affrontare a testa alta e senza paura i periodi duri e difficili”.I documenti in IRIS sono protetti da copyright e tutti i diritti sono riservati, salvo diversa indicazione.