L’indagine verte sul complesso tema dei rapporti tra le figure del recesso del committente, della mora accipiendi e dell’impossibilità della prestazione per fatto del creditore nei contratti aventi ad oggetto l’esecuzione di opere o servizi, analizzando le differenze e i rapporti fra gli istituti citati. Come è noto, la disciplina relativa a tali negozi riconosce alla parte committente, creditrice del facere, il diritto di recedere ad nutum dal rapporto, versando al prestatore di lavoro un indennizzo corrispondente, di regola, al rimborso delle spese sostenute, al compenso per l’opera prestata e al mancato guadagno. Posto che, ad avviso della dottrina prevalente, siffatto ius se poenitendi può essere esercitato sia attraverso una dichiarazione espressa che tramite un comportamento concludente (c.d. recesso tacito), l’autore ritiene che il rifiuto ingiustificato del committente di ricevere l’opera o il servizio possa determinarne la costituzione in mora (con conseguente applicazione degli art. 1206 ss. cod. civ.) solamente nei casi in cui la legge o il regolamento contrattuale escludano il sopra descritto diritto di recesso di regola riconosciuto al committente. Al contempo, il comportamento del committente che rende volontariamente impossibile l’opera o il servizio oggetto del contratto potrebbe essere qualificato quale esercizio del citato ius se poenitendi. Sulla base di tale premessa, si ritiene che la disciplina dettata per il recesso ad nutum sia applicabile per analogia anche alle ipotesi nelle quali la prestazione dell’artefice risulti inattuabile a causa di un fatto (non volontario, ma) ascrivibile a colpa del medesimo accipiens, di guisa che anche in tali ipotesi al prestatore d’opera sarebbe dovuto un indennizzo identico a quello previsto nei casi di esercizio dello ius se poenitendi.

Recesso del committente, mora accipiendi e impossibilità della prestazione per fatto imputabile al creditore

BANDIERA, FRANCO MAURIZIO
2013-01-01

Abstract

L’indagine verte sul complesso tema dei rapporti tra le figure del recesso del committente, della mora accipiendi e dell’impossibilità della prestazione per fatto del creditore nei contratti aventi ad oggetto l’esecuzione di opere o servizi, analizzando le differenze e i rapporti fra gli istituti citati. Come è noto, la disciplina relativa a tali negozi riconosce alla parte committente, creditrice del facere, il diritto di recedere ad nutum dal rapporto, versando al prestatore di lavoro un indennizzo corrispondente, di regola, al rimborso delle spese sostenute, al compenso per l’opera prestata e al mancato guadagno. Posto che, ad avviso della dottrina prevalente, siffatto ius se poenitendi può essere esercitato sia attraverso una dichiarazione espressa che tramite un comportamento concludente (c.d. recesso tacito), l’autore ritiene che il rifiuto ingiustificato del committente di ricevere l’opera o il servizio possa determinarne la costituzione in mora (con conseguente applicazione degli art. 1206 ss. cod. civ.) solamente nei casi in cui la legge o il regolamento contrattuale escludano il sopra descritto diritto di recesso di regola riconosciuto al committente. Al contempo, il comportamento del committente che rende volontariamente impossibile l’opera o il servizio oggetto del contratto potrebbe essere qualificato quale esercizio del citato ius se poenitendi. Sulla base di tale premessa, si ritiene che la disciplina dettata per il recesso ad nutum sia applicabile per analogia anche alle ipotesi nelle quali la prestazione dell’artefice risulti inattuabile a causa di un fatto (non volontario, ma) ascrivibile a colpa del medesimo accipiens, di guisa che anche in tali ipotesi al prestatore d’opera sarebbe dovuto un indennizzo identico a quello previsto nei casi di esercizio dello ius se poenitendi.
2013
9788814185144
recesso del committente, mora del creditore, impossibilità sopravvenuta per fatto imputabile al creditore
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