Sia nell'impianto narrativo di Ritorno in Lettonia che nei suoi principali nuclei tematici, Marina Jarre esibisce una serie di consonanze e suggestioni espresse da altre autrici italiane del Novecento quasi sempre estranee alla cultura ebraica. A titolo esemplificativo, si potrebbe accostare l’opera della Jarre a La penombra che abbiamo attraversato (1964), di Lalla Romano, ad Aracoeli (1982), di Elsa Morante e a Bagheria (1993), di Dacia Maraini. Secondo questa prospettiva, Ritorno in Lettonia presenta un tema ricorrente della scrittura autobiografica al femminile degli ultimi decenni, ossia il ritorno fisico e metaforico al paese dell’infanzia, compiuto da un io narrante che negli anni della maturità affronta finalmente certe lacerazioni profonde e mai risanate del passato, relative alle figure familiari. Nella Jarre, tale discorso si arricchisce di elementi originali, perché la ricerca e il recupero della figura paterna si saldano intimamente sia all’esigenza di comprendere e testimoniare la tragedia dell’antisemitismo consumatasi nell’Europa orientale e sovietica, sia al tentativo di cogliere il volto autentico di un padre volutamente cancellato dalla memoria, a causa di antiche incomprensioni familiari. In questa travagliata ricerca storica e individuale, la voce della bimba fuggita da Riga nel 1935 dialoga incessantemente con quella della scrittrice che tenta di ristabilire la verità su quanto è accaduto in quegli anni, e di ciò vengono sempre fornite opportune e puntuali indicazioni: studi sulle vicende dell’area baltica, ma anche numerose fonti personali (lettere, fotografie, testimonianze di parenti e amici), nonché frequenti autocitazioni che chiamano in causa altre opere della Jarre. Ciò che traspare dall’’opera è soprattutto il desiderio dell’autrice di ristabilire una presenza, quella paterna, da tramandare ai discendenti nel tentativo, forse, di preservare la radice ancestrale di sé e della propria famiglia, ma anche di una cultura e di una fede religiosa in fondo mai abiurata. Inoltre, tale discorso si costruisce attraverso una riflessione ‘laica’ sui valori etici della fede, secondo una coscienza multiculturale che si apre al dialogo fra le religioni: proprio la presenza di duplici radici ebraiche e valdesi – queste ultime ereditate dalla madre – consente alla scrittrice un’elaborazione estremamente originale dei temi della tradizione ebraica.

Voci di frontiera: il ritorno in Lettonia di Marina Jarre

2007-01-01

Abstract

Sia nell'impianto narrativo di Ritorno in Lettonia che nei suoi principali nuclei tematici, Marina Jarre esibisce una serie di consonanze e suggestioni espresse da altre autrici italiane del Novecento quasi sempre estranee alla cultura ebraica. A titolo esemplificativo, si potrebbe accostare l’opera della Jarre a La penombra che abbiamo attraversato (1964), di Lalla Romano, ad Aracoeli (1982), di Elsa Morante e a Bagheria (1993), di Dacia Maraini. Secondo questa prospettiva, Ritorno in Lettonia presenta un tema ricorrente della scrittura autobiografica al femminile degli ultimi decenni, ossia il ritorno fisico e metaforico al paese dell’infanzia, compiuto da un io narrante che negli anni della maturità affronta finalmente certe lacerazioni profonde e mai risanate del passato, relative alle figure familiari. Nella Jarre, tale discorso si arricchisce di elementi originali, perché la ricerca e il recupero della figura paterna si saldano intimamente sia all’esigenza di comprendere e testimoniare la tragedia dell’antisemitismo consumatasi nell’Europa orientale e sovietica, sia al tentativo di cogliere il volto autentico di un padre volutamente cancellato dalla memoria, a causa di antiche incomprensioni familiari. In questa travagliata ricerca storica e individuale, la voce della bimba fuggita da Riga nel 1935 dialoga incessantemente con quella della scrittrice che tenta di ristabilire la verità su quanto è accaduto in quegli anni, e di ciò vengono sempre fornite opportune e puntuali indicazioni: studi sulle vicende dell’area baltica, ma anche numerose fonti personali (lettere, fotografie, testimonianze di parenti e amici), nonché frequenti autocitazioni che chiamano in causa altre opere della Jarre. Ciò che traspare dall’’opera è soprattutto il desiderio dell’autrice di ristabilire una presenza, quella paterna, da tramandare ai discendenti nel tentativo, forse, di preservare la radice ancestrale di sé e della propria famiglia, ma anche di una cultura e di una fede religiosa in fondo mai abiurata. Inoltre, tale discorso si costruisce attraverso una riflessione ‘laica’ sui valori etici della fede, secondo una coscienza multiculturale che si apre al dialogo fra le religioni: proprio la presenza di duplici radici ebraiche e valdesi – queste ultime ereditate dalla madre – consente alla scrittrice un’elaborazione estremamente originale dei temi della tradizione ebraica.
2007
978-90-6701-017-7
Marina Jarre; ritorno; valdesi
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