In questo scritto si è proceduto alla ricostruzione dei lavori dell’Assemblea costituente relativi alla forma di governo. Dopo la caduta del fascismo, l’Italia appariva divisa da innumerevoli cleavage. Due sentimenti percorrevano il territorio nazionale: la paura e la rabbia. La paura era il sentimento degli industriali, dei tecnici, del ceto medio impiegatizio; paura che la guerra partigiana si trasformasse – dopo la ritirata degli alleati – in rivoluzione socialista. La rabbia era il sentimento delle masse operaie e contadine e dei disoccupati, che pativano la povertà e che dopo la guerra partigiana avevano dovuto accettare il ritorno nelle fabbriche degli stessi padroni del periodo fascista. In questo contesto deve essere collocato l’impegno dei partiti per la rifondazione costituzionale, in particolare della DC, del PCI e del PSIUP, consacrati come partiti di massa dalle elezioni alla Costituente del 2 giugno 1946. Nei lavori della costituente emerse il rifiuto della prospettiva decisionista. Ad esso si collega, in primo luogo, il rigetto della proposta azionista di una forma di governo presidenziale e il conseguente favor per una forma di governo parlamentare; in secondo luogo, all’interno di tale ultima opzione, ne è espressione l’opposizione alla centralità dell’esecutivo e al primato del Capo del Governo. Il disegno costituzionale della forma di governo reca però anche alcuni elementi di razionalizzazione, introdotti al fine di evitare le degenerazioni del parlamentarismo. Tali disposizioni regolano competenze e procedure che, nelle intenzioni dei costituenti, sarebbero state adeguate a evitare le degenerazioni assembleari conservando, tuttavia, spazi giuridici vuoti, che le istituzioni ed i partiti avrebbero disciplinato in via autonoma e informale. Si pensi alla figura del Presidente della Repubblica, dotato in Italia di poteri incisivi sul funzionamento della forma di governo; si pensi al potere governativo di ricondurre al procedimento legislativo ordinario un disegno di legge approvato da una commissione parlamentare in sede deliberante (art. 72, terzo comma) e, ancora, all’attribuzione al Presidente del Consiglio dei Ministri della funzione di direzione della politica generale e di mantenimento dell’unità di indirizzo. Si pensi, infine, all’esplicita attribuzione al Governo del potere di iniziativa legislativa e alla razionalizzazione del rapporto di fiducia, con l’introduzione del voto per “appello nominale” e della regola secondo cui il Governo non è obbligato a rassegnare le dimissioni in caso di voto contrario di una delle Camere. In base alle considerazioni che precedono, sembra condivisibile la qualificazione della forma di governo come parlamentare “a tendenza equilibratrice”: una forma di governo incardinata sul principio del bilanciamento dei poteri e solo parzialmente razionalizzata, così concepita perché – da parte dei costituenti – si ritenne che dalla prassi partitica sarebbe disceso lo “stato” della Costituzione e, in particolare, della forma di forma di governo. La forma di governo parlamentare delineata nel 1946-1948 è stata ritenuta insoddisfacente, quando non esausta, da una parte della comunità politica e della comunità scientifica nel dibattito sviluppatosi a partire dall’VIII legislatura (19791-1983). La proclamata esigenza di revisione della Costituzione ha portato all’istituzione di tre Commissioni parlamentari per le riforme istituzionali (Commissione Bozzi, nell’VIII legislatura); la Commissione De Mita-Iotti (nell’XI legislatura), la Commissione D’Alema (nella XIII legislatura). I lavori di tutte le commissioni parlamentari andarono nella direzione ora di una piena razionalizzazione della forma di governo parlamentare (è il caso della Commissione Bozzi e della Commissione De Mita-Iotti), ora del suo superamento mediante l’introduzione, in alternativa, dell’elezione diretta del premier o della forma di governo semipresidenziale (comitato Speroni), ora di un semipresidenzialismo “temperato” (è il caso della Commissione bicamerale D’Alema). Nella XIV legislatura, la maggioranza di centro-destra che esprimeva i Governi Berlusconi II e III approvò a maggioranza assoluta, ma non a maggioranza dei 2/3, una legge di revisione della seconda parte della Costituzione recante l’introduzione del premierato (proposta recante un sensibile incremento dei poteri dell’esecutivo e del suo Capo). Il voto contrario espresso dal corpo elettorale nel referendum costituzionale del 25/26 giugno 2006 ha incoraggiato la ripresa di un approccio minimalista alla revisione della forma di governo. Il dibattito sulla riforma costituzionale, all’inizio della XVI legislatura è ancora aperto. Il referendum costituzionale del 2006 sembra aver consigliato alla classe politica indirizzi più prudenti, nel segno della razionalizzazione della forma di governo parlamentare. Tali indirizzi possono essere, ad avviso di chi scrive, un buon percorso di “manutenzione” costituzionale della forma di governo e sono più rispettosi dell’acquis storico-costituzionale italiano. E’ infatti nell’arena politica nazionale che, per ragioni di competenza, si verifica l’interferenza tra la legge statale e i diritti costituzionali fondamentali; è in questa sede che avviene principalmente la redistribuzione delle risorse pubbliche. Solo un Parlamento, e non un Presidente eletto può assolvere a questa funzione di rappresentare il popolo e di consentire l’inclusione delle sue frazioni nella formazione dell’indirizzo politico. D’altro canto, l’elezione diretta del Capo dell’esecutivo è sicuramente foriera di stabilità, ma non necessariamente di efficienza della forma di governo (e di buon Governo). Se quindi l’elemento plebiscitario insito nell’elezione diretta del Capo dell’esecutivo sembra essere accettabile e tollerabile a livello comunale e provinciale, ove le Assemblee elettive non esercitano la funzione legislativa, e a livello regionale, ove le ampie competenze legislative riconosciute alle Regioni si estendono alla produzione dei servizi propri dello stato sociale, piuttosto che – quanto meno non in misura rilevante – all’imposizione fiscale, ai diritti e alle libertà fondamentali, tale percorso appare decisamente inopportuno con riferimento all’arena politica nazionale.

La forma di governo dall’Assemblea costituente alle prospettive di revisione costituzionale

CHERCHI, ROBERTO MARIA
2009-01-01

Abstract

In questo scritto si è proceduto alla ricostruzione dei lavori dell’Assemblea costituente relativi alla forma di governo. Dopo la caduta del fascismo, l’Italia appariva divisa da innumerevoli cleavage. Due sentimenti percorrevano il territorio nazionale: la paura e la rabbia. La paura era il sentimento degli industriali, dei tecnici, del ceto medio impiegatizio; paura che la guerra partigiana si trasformasse – dopo la ritirata degli alleati – in rivoluzione socialista. La rabbia era il sentimento delle masse operaie e contadine e dei disoccupati, che pativano la povertà e che dopo la guerra partigiana avevano dovuto accettare il ritorno nelle fabbriche degli stessi padroni del periodo fascista. In questo contesto deve essere collocato l’impegno dei partiti per la rifondazione costituzionale, in particolare della DC, del PCI e del PSIUP, consacrati come partiti di massa dalle elezioni alla Costituente del 2 giugno 1946. Nei lavori della costituente emerse il rifiuto della prospettiva decisionista. Ad esso si collega, in primo luogo, il rigetto della proposta azionista di una forma di governo presidenziale e il conseguente favor per una forma di governo parlamentare; in secondo luogo, all’interno di tale ultima opzione, ne è espressione l’opposizione alla centralità dell’esecutivo e al primato del Capo del Governo. Il disegno costituzionale della forma di governo reca però anche alcuni elementi di razionalizzazione, introdotti al fine di evitare le degenerazioni del parlamentarismo. Tali disposizioni regolano competenze e procedure che, nelle intenzioni dei costituenti, sarebbero state adeguate a evitare le degenerazioni assembleari conservando, tuttavia, spazi giuridici vuoti, che le istituzioni ed i partiti avrebbero disciplinato in via autonoma e informale. Si pensi alla figura del Presidente della Repubblica, dotato in Italia di poteri incisivi sul funzionamento della forma di governo; si pensi al potere governativo di ricondurre al procedimento legislativo ordinario un disegno di legge approvato da una commissione parlamentare in sede deliberante (art. 72, terzo comma) e, ancora, all’attribuzione al Presidente del Consiglio dei Ministri della funzione di direzione della politica generale e di mantenimento dell’unità di indirizzo. Si pensi, infine, all’esplicita attribuzione al Governo del potere di iniziativa legislativa e alla razionalizzazione del rapporto di fiducia, con l’introduzione del voto per “appello nominale” e della regola secondo cui il Governo non è obbligato a rassegnare le dimissioni in caso di voto contrario di una delle Camere. In base alle considerazioni che precedono, sembra condivisibile la qualificazione della forma di governo come parlamentare “a tendenza equilibratrice”: una forma di governo incardinata sul principio del bilanciamento dei poteri e solo parzialmente razionalizzata, così concepita perché – da parte dei costituenti – si ritenne che dalla prassi partitica sarebbe disceso lo “stato” della Costituzione e, in particolare, della forma di forma di governo. La forma di governo parlamentare delineata nel 1946-1948 è stata ritenuta insoddisfacente, quando non esausta, da una parte della comunità politica e della comunità scientifica nel dibattito sviluppatosi a partire dall’VIII legislatura (19791-1983). La proclamata esigenza di revisione della Costituzione ha portato all’istituzione di tre Commissioni parlamentari per le riforme istituzionali (Commissione Bozzi, nell’VIII legislatura); la Commissione De Mita-Iotti (nell’XI legislatura), la Commissione D’Alema (nella XIII legislatura). I lavori di tutte le commissioni parlamentari andarono nella direzione ora di una piena razionalizzazione della forma di governo parlamentare (è il caso della Commissione Bozzi e della Commissione De Mita-Iotti), ora del suo superamento mediante l’introduzione, in alternativa, dell’elezione diretta del premier o della forma di governo semipresidenziale (comitato Speroni), ora di un semipresidenzialismo “temperato” (è il caso della Commissione bicamerale D’Alema). Nella XIV legislatura, la maggioranza di centro-destra che esprimeva i Governi Berlusconi II e III approvò a maggioranza assoluta, ma non a maggioranza dei 2/3, una legge di revisione della seconda parte della Costituzione recante l’introduzione del premierato (proposta recante un sensibile incremento dei poteri dell’esecutivo e del suo Capo). Il voto contrario espresso dal corpo elettorale nel referendum costituzionale del 25/26 giugno 2006 ha incoraggiato la ripresa di un approccio minimalista alla revisione della forma di governo. Il dibattito sulla riforma costituzionale, all’inizio della XVI legislatura è ancora aperto. Il referendum costituzionale del 2006 sembra aver consigliato alla classe politica indirizzi più prudenti, nel segno della razionalizzazione della forma di governo parlamentare. Tali indirizzi possono essere, ad avviso di chi scrive, un buon percorso di “manutenzione” costituzionale della forma di governo e sono più rispettosi dell’acquis storico-costituzionale italiano. E’ infatti nell’arena politica nazionale che, per ragioni di competenza, si verifica l’interferenza tra la legge statale e i diritti costituzionali fondamentali; è in questa sede che avviene principalmente la redistribuzione delle risorse pubbliche. Solo un Parlamento, e non un Presidente eletto può assolvere a questa funzione di rappresentare il popolo e di consentire l’inclusione delle sue frazioni nella formazione dell’indirizzo politico. D’altro canto, l’elezione diretta del Capo dell’esecutivo è sicuramente foriera di stabilità, ma non necessariamente di efficienza della forma di governo (e di buon Governo). Se quindi l’elemento plebiscitario insito nell’elezione diretta del Capo dell’esecutivo sembra essere accettabile e tollerabile a livello comunale e provinciale, ove le Assemblee elettive non esercitano la funzione legislativa, e a livello regionale, ove le ampie competenze legislative riconosciute alle Regioni si estendono alla produzione dei servizi propri dello stato sociale, piuttosto che – quanto meno non in misura rilevante – all’imposizione fiscale, ai diritti e alle libertà fondamentali, tale percorso appare decisamente inopportuno con riferimento all’arena politica nazionale.
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