Se c’è qualcosa che caratterizza alcune famose narrazioni fantascientifiche degli ultimi cinquanta anni è una sorta di irrisolvibile ambiguità tra utopia e distopia. Il mondo rappresentato non è più chiaramente distopico al lettore fin dalle prime pagine come in Wells, Orwell, Bradbury o Dick ma le distinzioni si fanno più sfumate come nel Mondo nuovo di Huxley, forse il vero grande modello della distopia contemporanea. Nelle storie di Ballard o in più recenti saghe come The Giver e Divergent fino ad arrivare a romanzi come Il cerchio vengono mostrati mondi all’inizio apparentemente utopici che scivolano via via verso la distopia. Ma perfino alla fine resta sempre la sensazione che il mondo di partenza, così pacifico e sereno, non fosse poi così sbagliato, che quell’utopia, con alcuni doverosi aggiustamenti, avrebbe anche potuto funzionare. Da cosa deriva questa ambiguità? E perché permane pressoché invariata (con alcune importanti differenze tra le distopie tipicamente ballardiane e quelle degli anni Duemila) nell’ultimo mezzo secolo nonostante le profonde trasformazioni tecnologiche, politiche e sociali? Proviamo ad analizzare la natura di tali “utopie mascherate” (Ilardi, Loche, Marras 2018) prima di provare a ipotizzare una risposta a queste domande.

Il sobborgo come utopia realizzata. Da Supercannes di J. G. Ballard a Il cerchio di D. Eggers

Ilardi, E.
2019-01-01

Abstract

Se c’è qualcosa che caratterizza alcune famose narrazioni fantascientifiche degli ultimi cinquanta anni è una sorta di irrisolvibile ambiguità tra utopia e distopia. Il mondo rappresentato non è più chiaramente distopico al lettore fin dalle prime pagine come in Wells, Orwell, Bradbury o Dick ma le distinzioni si fanno più sfumate come nel Mondo nuovo di Huxley, forse il vero grande modello della distopia contemporanea. Nelle storie di Ballard o in più recenti saghe come The Giver e Divergent fino ad arrivare a romanzi come Il cerchio vengono mostrati mondi all’inizio apparentemente utopici che scivolano via via verso la distopia. Ma perfino alla fine resta sempre la sensazione che il mondo di partenza, così pacifico e sereno, non fosse poi così sbagliato, che quell’utopia, con alcuni doverosi aggiustamenti, avrebbe anche potuto funzionare. Da cosa deriva questa ambiguità? E perché permane pressoché invariata (con alcune importanti differenze tra le distopie tipicamente ballardiane e quelle degli anni Duemila) nell’ultimo mezzo secolo nonostante le profonde trasformazioni tecnologiche, politiche e sociali? Proviamo ad analizzare la natura di tali “utopie mascherate” (Ilardi, Loche, Marras 2018) prima di provare a ipotizzare una risposta a queste domande.
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